sabato 14 maggio 2011

Il Viaggio


dí Elio Arnone


La vecchia littorina sferragliava pigramente tra gli alti eucalipti e le stoppie bruciate.
    Di tanto in tanto emetteva sibili laceranti che squarciavano 1'aria immobile e rarefatta di quell'afoso pomeriggio d'agosto. Affacciato al finestrino, Giulio guardava attento quella terra spaccata dai raggi impietosi del sole e che pareva invocare una pioggia ristoratrice.
    Il paesaggio era brullo e giallastro come allora, quando aveva percorso in senso inverso quell'itinerario arido per raggiungere, al nord, il suo primo lavoro.
Paesaggio estivo nel centro della Sicilia
    Ricordava ancora la littorina, stipata di bagagli improvvisati, e la folla di viaggiatori accaldati e vocianti che ad ogni sosta scendevano svelti per rinfrescarsi nelle fontanelle di tante piccole stazioni assolate.
    Aveva fatto bene a scegliere il treno per il suo ritorno dopo tanti anni di lontananza. 
    Pensava che fosse il mezzo migliore per tentare di rivivere emozioni lontane. 
     La littorina era quasi vuota. Con lui soltanto un paio di ferrovieri che rientravano dal servizio e quattro extracomunitari silenziosi e con gli occhi attenti ai loro scatoloni pieni di cianfrusaglie.
     Ne era passato di tempo da quel suo primo importante viaggio!
Verso il mitico NORD....
Aveva ventitré anni quando era partito da Licata lasciando soli gli anziani genitori.
Da allora non era più ritornato.
Talvolta lo turbava il pensiero che la sua partenza ne avesse in qualche modo causato la morte, e questo lo rattristava per intere giornate.
    Ricordava con nostalgia soprattutto il padre con il quale in gioventù aveva avuto durissimi battibecchi. 
     Gli rimproverava la lunga milizia nella Democrazia Cristiana - la balena bianca - e il servilismo umiliante nei confronti dei notabili agrigentini.
Antico manifesto 
      Lo accusava di essere solo un opportunista, un egoista privo di qualsiasi convincimento politico.
          Il padre gli rispondeva che forse aveva ragione. Però la sua condotta gli era valsa un posto di lavoro invidiato da tanti, e che era davvero molto in un paese di disoccupati. 
         E che comunque grazie a quel posto lui poteva permettersi di mantenerlo all'Università.
     Nonostante questi impietosi giudizi ed altri piccoli contrasti, Giulio non pensò mai che il padre fosse una cattiva persona.          
     Capiva che se lui continuava a sopportare tante umiliazioni  lo faceva per il suo bene, convinto com'era che quella fosse l'unica strada percorribile in quel paese senza avvenire. 
    In fondo quello era il suo modo per dimostrargli affetto.
    E quella strada che allora aveva imboccata per sistemare se stesso, continuava a percorrere oggi per suo figlio. 
   Ma, anche se il padre fosse riuscito nel suo intento, Giulio non avrebbe mai accettato l'umiliazione di quella soluzione.
      Furono proprio quelle continue discussioni a procurargli un forte senso di ribellione nei confronti del genitore. 
      Forse fu anche per questo che si iscrisse al partito comunista e diventò un'attivista convinto, sempre in prima fila in tutte le manifestazioni di piazza.
       Però più cresceva il suo impegno politico e più si andava deteriorando il rapporto con l'anziano genitore. 
       Al punto che Giulio si decise a dare un taglio a quella situazione.
       Partecipò a tutti i concorsi pubblici di cui veniva a conoscenza, abbandonando persino l'Università per prepararsi meglio. 
         Fino a quando riuscì a vincerne uno alle Poste.
      Quando lo chiamarono ne fu felice. 
      Salì di corsa sul primo treno, quasi timoroso di perdere quell'occasione, per andare a lavorare a Montemignaio, un paesino del Casentino sotto i monti del Pratomagno.
Montemignaio
Incastonato nel verde, quieto e tranquillo, pieno di castagni e faggeti. Dove le stagioni avevano una fisionomia precisa, ed ognuna una bellezza diversa. 
   Ruscelli freschi e gorgoglianti di acque limpide scorrevano tra le case dai tetti rossi. 
    Come diversa la Sicilia che si era appena lasciata alle spalle! 
    Un mondo ideale per iniziare una nuova vita.
    In poco tempo si formò una famiglia e riprese gli studi universitari riuscendo a laurearsi.
    Una nuova serenità e la tranquillità economica e familiare lo avevano piano piano allontanato dalla sua terra, fino a quasi dimenticarla del tutto. 
   Anche con i pochi amici di Licata si sentiva al telefono sempre più raramente, fino al silenzio totale.
   Per la verità gli era capitato di incontrare qualche compaesano quando il Licata, allora in serie B, giocava dalle sue parti. 
   Ma, dopo la partita, tutto era finito lì.
Tifosi del Licata
      Però i tanti successi e la simpatia di quegli impertinenti undici gialloblù lo avevano davvero entusiasmato. 
     Entusiasmo che aveva contagiato anche i suoi nuovi concittadini toscani che conoscevano le sue origini. 
      Al bar Rosario, dove la domenica pomeriggio si riunivano i tifosi per seguire le partite della Fiorentina, la squadra di Licata era argomento di animate discussioni e  Giulio vi partecipava da protagonista. 
      Ogni lunedì, nel suo Ufficio postale perfino i più anziani del paese non mancavano di chiedergli: "Oh icchè gli ha fatto il Lihata?"  Meravigliati e incuriositi da quella squadra tutta siciliana, fatta con pochi soldi ed un desiderio di riscatto percepibile ogni volta che scendevano in campo. 
     Anche tutta questa attenzione aveva contribuito a risvegliare in lui un orgoglio licatese sopito da tempo.
Mister Zeman
 Ma, come tutte le più belle favole, anche la favola bella dell'indimenticabile   squadra di Zeman, finì presto .
 E quell'esile filo che per un po' l'aveva spiritualmente riavvicinato alla sua terra, piano piano venne meno.
        Tutto tornò come prima e Licata abbandonò  nuovamente i ricordi di Giulio. 
     Fino a quando quell'esile filo improvvisamente si riannodò, ed anche con maggior vigore. 
     La cosa avvenne in modo casuale. 
     Navigando su internet aveva scoperto il sito "www.lavedettaonline.it", e vi si era soffermato incuriosito. 
     Fu meravigliato di trovarci tante notizie su Licata, tante fotografie, a colori ed in bianco e nero dei luoghi della sua gioventù, curiosità storiche, racconti, antiche stampe e nomi di persone conosciute che ricordava o di cui aveva sentito parlare.
     Da allora, la sera, quando poteva, si collegava per leggerne  le novità, soddisfare la sua curiosità e la voglia di giocare con la  memoria.
     Passava così alcune ore, ed ogni volta che spegneva il computer per andare a dormire, provava sempre più forte una grande  malinconia. 
     Sentiva crescere in lui sempre più forte il richiamo della sua terra. 
     Tanto che in testa gli era cominciata a frullare l'idea che forse sarebbe stato bello tornarci a vivere, magari una volta in pensione.
     Poco a poco una nostalgia sempre più viva e un desiderio sempre più irresistibile lo convinsero che era arrivato il tempo di partire, di provare a riannodare quel filo traumaticamente spezzato. 
     Ed ora era lì, affacciato al finestrino, a ripercorrere la sua storia su quel treno che, lento, andava verso il suo passato. 
     Il viaggio fu davvero interminabile ma anche ricco di vecchie emozioni.
     Riattraversare lo Stretto, ripetendo il rito delle arancine da mangiare sul ponte del ferry-boat,  mentre si avvicinava alla Sicilia, lo commosse non poco. 
    Ed anche attraversare con il treno l'interno dell'isola era davvero affascinante. 
    Per tutto il viaggio non tolse mai lo sguardo da quelle campagne dimenticate, da quelle terre crepate dai raggi di un sole impietoso. 
   Respirava quell'aria rarefatta come un assetato che finalmente può placare la sua sete. 
    Voleva vivere intensamente quella sua ricerca dei luoghi della memoria da tempo perduti.
     Giulio capì che era arrivato quando, in lontananza, gli apparve sulla collina la macchia verde dei vigneti dell'antica fattoria dei Quignones.
      La littorina si fermò stridendo nella stazione deserta.
Stazione di Licata  di G. Nogara

Il capotreno aprì le porte, fece scendere i pochi viaggiatori ed ordinò al macchinista di ripartire. Giulio restò un attimo fermo con la valigia a fianco. Non c'era nessuno.
Neanche un ferroviere. 
Le porte degli uffici e le finestre erano tutte desolatamente chiuse.
       Anche quella dell'ufficio del Capostazione, che lui ricordava uscire impettito con il suo bel berretto rosso in testa, il fischietto in bocca, e la paletta verde alzata per ordinare la partenza ai treni.  
        Che tristezza!
         Eppure nei suoi ricordi quel luogo era stato sempre pieno di vita, affollato di viaggiatori in attesa di treni che andavano al Nord... Allora, ad ogni arrivo, c'era la corsa frenetica per salire sui treni.
"Emigranti" del Pittore licatese Gino Leto.
        Il tempo della fermata era poco. 
        Occorreva fare presto. 
        Viaggiatori vocianti  si muovevano freneticamente con i bagagli in mano spingendosi l'un l'altro alla ricerca di un posto. 
         Quando finalmente le porte delle littorine si chiudevano, partivano lentamente, emettendo fischi che sembravano lamenti. 
         A Giulio tornarono in mente le lagrime di chi restava.      
 I familiari e gli amici più cari che, dal marciapiede della stazione sventolando fazzoletti bianchi, salutavano  fin quando il treno spariva dietro la curva.
     Ora la stazione gli appariva morta.
     Con il cellulare telefonò all'albergo "Al Faro", vicino al porto.
      Una macchina venne a prenderlo poco dopo. 
      Sbrigate le formalità, salì in camera sua, fece la doccia, si sdraiò sul letto e chiamò al telefono Enzo, un suo vecchio, caro compagno.
      Poco dopo si incontrarono. 
      Ebbero un attimo di esitazione per un reciproco e divertito controllo dei danni da invecchiamento causati dal tempo, poi si abbracciarono e decisero di cenare insieme.
      Si sedettero ad un tavolo del ristorante dell'albergo. 
      Un cameriere premuroso prese le ordinazioni. 
       Ne avevano di cose da raccontarsi dopo tanti anni di lontananza!
    Giulio chiese subito dei vecchi compagni di scuola.
   Apprese così che Giuseppe, Ninni ed Angelo purtroppo non c'erano più, tutti portati via giovanissimi da mali incurabili. 
   Dopo un'attimo di smarrimento, chiese degli altri.
   Seppe così che Lillo era preside nel Veneto e che lui invece era stato fortunato a rimanere a Licata, riuscendo anche a fare   una buona carriera. 
   Ed anche Piero, apprezzato funzionario della Soprintendenza si era sistemato ad Agrigento, mentre Giovanni, il dottore, era diventato un apprezzato dirigente dell'Asl di Agrigento. 
   Molti invece erano partiti, comunque distinguendosi nelle loro attività. Come Michele, preside a Vicenza, Francesco, docente all'Università, o Ida, apprezzata giornalista del telegiornale.
  Di altri non aveva più notizie.
  Enzo gli spiegò che non era cambiato molto dalla sua partenza e che ancora oggi la Città non sapeva offrire opportunità ai suoi giovani, costringendoli a cercarle fuori.
  Fortunatamente alcuni scappando da Licata erano riusciti a realizzare altrove le loro aspirazioni. 
   Però questa  fuga di intelligenze aveva reso il paese culturalmente sempre più povero, privandolo di una classe dirigente idonea a promuoverne qualsiasi possibile sviluppo.
   Enzo parlava volentieri. 
   Anche per lui quella era una buona occasione per scavare nella memoria ricordi che già riteneva sepolti dal tempo. 
Preparazione dell'ultima festa della matricola
    Sorrisero insieme ripensando alla festa della matricola del 1969, con i carri allegorici e lo spettacolo finale in un cinema Corallo gremito fino all'inverosimile.
    Quanto si erano divertiti vestiti con gli sgargianti costumi da ballerine noleggiati al Massimo di Palermo per l'occasione, con le gambe pelose e le barbe incolte, a ballare il can can più strampalato ed esilarante mai visto!
    E le giornate al Circolo goliardico, a spettegolare o leggere e chiosare i giornali. 
   E le lunghe estati a Mollarella. 
Baia di Mollarella a Licata
    Giocavano per ore a pallone sull'arenile rovente. 
    Poi, sudati, si tuffavano in quello specchio di mare limpido e rotondo. Poi pigramente si lasciavano asciugare al sole. 
    Distesi sulla sabbia dorata guardavano di sottecchi le ragazze in bikini passeggiare ancheggiando lungo la battigia.
    Alla sera, pigiati come sardine dentro la sgangherata cinquecento di turno, concludevano quelle giornate spensierate andando a sentire i cantanti e a ballare a Falconara o a Torre di Gaffe.
   La cena a base di pesce era stata ottima, così come la serata. Entrambi erano felici per quei tuffi nel passato. 
  Giulio però cominciava ad accusare la stanchezza del viaggio. 
   Ordinò due caffè e si scusò con Enzo, ringraziandolo per la bella serata e dicendogli che si sarebbero potuti vedere 1'indomani. 
   Enzo annuì e, aspettando il caffè, accennò alla politica locale. 
   Si doleva dell'indifferenza dei suoi concittadini. 
   Non avevano più fiducia nei politici, né nei partiti, di qualsiasi colore. 
    Rimproverava i pochi intellettuali impegnati che volontariamente si erano messi da parte abbandonando il paese nelle mani di amministratori improvvisati e privi di esperienza.
     Il cameriere portò i caffè. 
    Enzo e Giulio li bevvero velocemente e si salutarono
stringendosi la mano.
    Giulio dormì profondamente tutta la notte. 
    Alle nove del mattino Enzo lo svegliò.
Bar Azzurro


     Fecero colazione al Bar Azzurro, con granita di limone e brioches, come ai bei tempi, poi salirono in macchina. 
     La prima tappa fu il vecchio cimitero dei Cappuccini, dove Giulio sistemò dei fiori sulla tomba dei genitori. 


     Poi s'infilarono nel traffico urbano.


     Giulio si preoccupò subito per la guida disinvolta degli automobilisti e dei tanti giovani senza casco che zigzagavano con i motorini fra le macchine in movimento. 
      Enzo lo tranquillizzò dicendo che era abituato a quel caos.
La fila per la pensione....
     Passarono davanti alla posta di piazza Linares e Giulio notò un assembramento che lo incuriosì. 
     Erano persone in fila, sotto il sole cocente e che gli uffici non riuscivano a contenere. 
     C'erano gli anziani per riscuotere le pensioni ed i giovani l'indennità di disoccupazione. 
      Giulio ascoltava perplesso, mentre Enzo continuava a guidare e ad aggiornarlo su tutto. 
      Continuò con le sue spiegazioni denunciando un preoccupante aumento della microcriminalità, ed elencò minuziosamente una serie impressionante di scippi, furti nelle abitazioni, danneggiamenti e auto bruciate. 
      E perfino intimidazioni ad un parroco e ad un carabiniere.    Insomma, la città sembrava essere diventata invivibile secondo Enzo, che si chiedeva se le forze di polizia avessero davvero ancora il controllo del territorio.
     Certo, l'osservanza delle regole non era mai stata una virtù per molti dei loro concittadini, ed era cosa risaputa che il bisogno spingesse tanti ad arrangiarsi per non pagare i ticket sanitari o per ottenere sussidi, indennità o pensioni cui non avevano diritto.    Con la complicità interessata della politica che li "aiutava" nelle svariate illegalità per ottenere in cambio consenso elettorale.
    Ma ora si stava veramente esagerando. 
    Enzo gli confidò che se non fosse stato per alcuni affetti, anche lui sarebbe andato altrove a cercare un avvenire per i suoi figli. 
    Ma forse gli era mancato il coraggio.
    Giulio continuava ad ascoltare in silenzio.
    Girarono con la macchina tutto il territorio comunale, dalla Plaia a Torre di Gaffe, ed anche le periferie, polverose e prive di servizi. 
    Spesso piene di case mai rifinite e che forse mai sarebbero state abitate. 
    Costruite in fretta senza autorizzazioni con le rimesse ed i sacrifici di tanti emigrati.
Casa abusiva

Quante case nuove avevano visto! Migliaia, forse. 
E quasi tutte desolatamente vuote, senza vita. ..
     E quanto antiestetico ed inutile cemento deturpava l'intera costa ricca di cale e calette d'impareggiabile bellezza! 
      Vere meraviglia di una natura generosa, che non aveva certo lesinato bellezze a quella che sarebbe dovuta rimanere una costa incontaminata! 
      Giulio continuava ad osservare perplesso la campagna, una volta aperta all'aria ed al sole, e vedeva soltanto  smisurati tappeti di plastica trasparente.
Serre a Licata
No, non erano quelli i luoghi della sua gioventù.
Riflettè sul suo stile di vita così diverso da quello riscontrato nella sua Città natale. 
Capì che non ce l'avrebbe mai fatta a riambientarsi in quella città che non aveva saputo crescere e che forse mai ci sarebbe riuscita. 
     Attristato si rivolse ad Enzo, improvvisamente.
     Gli chiese di riaccompagnarlo in albergo. 
     Enzo capì. 
     Non apparve affatto meravigliato della sua richiesta.
     Davanti all'albergo fu particolarmente affettuoso con Giulio, forse presagendo che non l'avrebbe mai più rivisto. 
     Giulio salì in camera sua, preparò i bagagli e telefonò ad un taxi. 
     Questa volta avrebbe reciso definitivamente il cordone ombelicale con la sua terra. 
    La sua vita era ormai in quel paesino piccolo ed ordinato, immerso nel verde. 
     In quella piccola Svizzera in cui erano cresciuti i suoi figli, che lì avevano imparato a parlare e lì avevano studiato. Casentinesi tra i Casentinesi, lì avrebbero trovato il loro futuro. 
A Catania un aereo lo aspettava. 
Partiva.
Per non tornare più.



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Grazie per essere stati con me....
Elio Arnone

martedì 10 maggio 2011

Gaetano. Una storia nostrana.

                
                                di Elio Arnone

Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un trafiletto sul “Venerdì” di Repubblica, a firma Michele Mirabella. L’autore riferiva di una storia raccontatagli da un suo collega giornalista e osservatore di costume. La vicenda riguardava un giovane soldato siciliano di nome Gaetano che, nelle trincee della prima guerra mondiale, serviva la Patria.
Soldati in trincea
Come molti arruolati del tempo, Gaetano aveva probabilmente risposto controvoglia  alla chiamata alle armi.  La Patria  non so quanto la sentisse veramente sua. Giunto al fronte  si arrabattò, con successo, ad imboscarsi una volta come furiere, un’altra come cuoco, infine come attendente.
 Felicemente dotato della furbizia tipica dei contadini siciliani  riuscì per ben tre anni di guerra a non maneggiare una sola volta il fucile, che giaceva, placido e inerme, in un oscuro angolo. Quando scattava un’offensiva austriaca, Gaetano si rintanava tomo tomo, servendo, curando, cucinando. E aspettando fiducioso che la buriana passasse.
Un giorno, però, gli austriaci decisero di fare sul serio e scatenarono un’energica sortita per occupare la trincea italiana. I nostri soldati vacillarono paurosamente e nella tempesta di fuoco che si sviluppò un proiettile sibilò a pochi centimetri da Gaetano sfiorandogli  l’elmetto.
Fu solo un attimo, “cristiano era e diavulo addiventò”. Scattò in piedi come una furia, si tolse l’elmo appena scalfito e urlò con tutto il fiato che aveva in corpo: “A ‘mmiaaaa???”.
Afferrò il fucile, uscì dall’insicuro riparo, e si avventò come una bestia contro i crucchi, sparando all’impazzata. 
I suoi commilitoni, infiammati, ne seguirono tosto l’esempio. Il contrattacco si dispiegò talmente imperioso da seminare il panico tra gli austriaci, fino a respingerli. Conclusa l’operazione, Gaetano, catamri catamri, tornò placato alle sue marmitte. 
C’è chi giura di averlo sentito bofonchiare in siculo: 
“Minchia...! A ‘mmia, chissu, un ‘mi l’avivanu a fari!”.
Battaglia di Vittorio Veneto
Da quell’eroico episodio, racconta qualcuno, forse favoleggiando, prese avvio la decisiva battaglia di Vittorio Veneto. 
Ma probabilmente  è un’aggiunta per rendere più incisiva la storia di Gaetano.
Cercherò di spiegare perché ho voluto raccontare questa storiella e perché mi è piaciuta.
Gaetano è siciliano, un siciliano come tanti, con pregi (pochi?) e difetti (tanti?).  Come tutti noi. Anzi, non mi meraviglierei affatto che venisse perfino dall’area di Licata.
         Perché Gaetano ha il nostro stesso carattere, un po’ anarcoide ed individualista, strutturalmente incapace di vivere una società per il bene collettivo. 
Proprio come noi. 
Sempre in difesa del nostro particolare – “addifenna u ‘tuu a tortu o dirittu” -, e pronti a reagire solo se personalmente colpiti nel nostro orgoglio o, soprattutto, nel nostro interesse.
Andiamo quasi sempre in ordine sparso, incapaci di riunirci e senza nessun senso di appartenenza. 
Non amiamo le regole, perché non ne possediamo il senso, incapaci di rinunciare a cedere un po’ della nostra libertà a vantaggio di tutti e delle regole stesse. Perfino benevoli nel giudicare chi ha fatto fortuna al di fuori della legalità non considerandolo disonesto ma “ Unu ca cci seppa fari”.
E' davvero questa la nostra identità?


“I siciliani – scriveva Di Castro circa cinquecento anni fa - generalmente sono più astuti che prudenti, più acuti che sinceri, amano le novità, sono litigiosi, adulatori e per natura invidiosi, sottili critici delle azioni dei governanti, ritengono sia facile realizzare tutto quello che loro dicono farebbero se fossero al posto dei governanti”.
I PUPI siciliani
Mi sembra un quadro perfetto e di grande attualità, come se nel tempo, non fosse mutato nulla. E, se mi è consentita, da licatese, un’autocritica, ritengo che quel giudizio impietoso fotografi anche la nostra realtà di oggi.
Credo il degrado attuale della nostra città figlio del nostro modo di pensare, del nostro modo di essere. Oggi nessun cittadino si aspetta che la politica risolva i problemi di tutti. Al contrario, ciascuno si aspetta di veder risolto il proprio problema personale.
Le classi dirigenti non hanno fatto nulla per accrescere una maggiore consapevolezza del voto.
Condizionamento mafioso...
 Politici senza scrupoli, fin dalle prime consultazioni repubblicane –li ricordiamo- pur di raggiungere i propri obbiettivi hanno falsato il loro rapporto con gli elettori offrendo “cartate di pasta” in cambio di voti, instaurando di fatto un rapporto di scambio, arricchito dalle abituali vane promesse.
...e l'altra?
Un rapporto in cui ciascuno cerca il proprio tornaconto, senza spirito di servizio, privo di qualsiasi generosità. Che porta il cittadino a scegliere sempre il cavallo previsto come “vincente”, non quello “migliore” per ideologia, capacità, progettualità, onestà. 
Somaro Vincente...
Va da sé che la classe dirigente emersa nel tempo da questa selezione risulta molto spesso tanto modesta quanto rapace e non può che produrre danni devastanti sui territori che amministra.
         Non è diverso il discorso a livello locale. Continua, infatti, da anni il declino culturale, politico, sociale ed economico della nostra città, in un’atmosfera di fatalistica rassegnazione collettiva.
I pochi intellettuali della città da tempo si sono allontanati dalla politica attiva, convinti che “governare i licatesi più che difficile, sia del tutto inutile”.
Questa assenza pesa molto sulla città. 
Si ripercuote pesantemente sulla qualità della politica, che scade sempre più ogni anno che passa, e lascia spazi immensi a maneggioni senza arte né parte, privi del minimo di cultura necessario per la gestione di una Città come la nostra.
 Ma noi licatesi difettiamo spesso di autocritica, convinti di essere sempre più bravi degli altri e nessuno, tra noi, è disposto a riconoscere le maggiori qualità dell’altro.
Incapaci di generosità pensiamo che dietro ogni gesto generoso ci sia un calcolo, un secondo fine.
La furbizia ci porta a pensare che non possano esistere magnanimità e nobiltà d’animo.
A tutti noi sarà capitato di ascoltare frasi come: “Pirchì,’cchi cciava chiddru superciu di mia?”.  Dette contro ogni evidenza, ma che autorizzano i più rozzi ed incolti tra noi a proporsi come sindaco o consigliere comunale, anche se intimamente coscienti della loro incapacità a ricoprire quei ruoli.
 Ad ogni elezione vediamo concorrere una miriade di aspiranti amministratori tutti pronti a gestire al meglio il bene comune.            
  Ma se sono tutti davvero così bravi come si spiega che la città versi in condizioni così pietose?
 Mi viene in mente un passo de Il Gattopardo, quando Don Fabrizio, nel famoso discorso al piemontese Chevalley, dice:
Il Gattopardo
         “I siciliani/I licatesi non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria;
… sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla”.
Oggi, come allora, attendiamo il NULLA.  
Abbiamo un sindaco costretto dalla giustizia a non mettere piede nella città, siamo rimasti senza il Consiglio comunale, dimessosi per scelta politica, una giunta raccogliticcia, completata con assessori presi dai paesi vicini, per il rifiuto di molti di farne parte.
 Tutto ciò è davanti ai nostri occhi. Da noi non è mai attecchito, forte e duraturo, il germe dell’indignazione responsabile e consapevole. Non ci si indigna più di niente. Assistiamo impotenti allo sfacelo come se non ci riguardasse.
Cuffaro a Lombardo: "Ti aspetto..."
A livello regionale le cose non vanno certo meglio. Nel giro di poco tempo un ex Presidente della Regione è stato condannato per reati aberranti e quello attualmente in carica è ora sotto inchiesta con le stesse imputazioni, o quasi.
La Sicilia? Un gran casino....
(Il quadro è di Guttuso)
          Anomalie licatesi? Anomalie siciliane? Una cosa è certa. Perdurando queste condizioni né Licata né la Sicilia cambieranno il loro stato. Per trovare una via d’uscita, ciascuno di noi dovrà sforzarsi di iniziare un personale percorso di cambiamento.
Ma non sarà comunque facile, al punto in cui siamo.




                                                                            Grazie per essere stati con me...
                                                                                                          Elio Arnone